3° appuntamento con l'angolo ZEN
Torna la RUBRICA delle STORIE ZEN a confronto con il pensiero psicoanalitico.
Ecco la proposta di oggi :
LIBERAZIONE
Un giovane, si presentò davanti al maestro, e dichiarò «Vengo da te perché cerco la liberazione».
«Chi ti ha incatenato?», gli domandò il maestro.
«Nessuno» rispose il giovane.
«Allora sei già libero», sentenziò il maestro.
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Questa brevissima storia zen scuote il lettore con la sua incisività.
Forse perché mostra quanto un’ ideazione, una falsa credenza, oppure, un certo modo di vivere le proprie emozioni, possa condizionare con tanta pervasività un individuo, fino al punto di fargli sentire il bisogno di essere liberato da una vera e propria prigionia….
Ma cosa porta una persona ad avvertire la sensazione di portare catene invisibili ?
Gancio rurale dove si legavano i muli in passato
Per sciogliere tale quesito e perseguire l’obiettivo di ottenere il superamento di questa condizione, mi avvarrò a mia volta di una storia, questa volta clinica, ma non per questo meno centrata sul ‘qui ed ora’.
Accade cioè che il passato diventi talvolta un ‘qui ed ora’ problematico, finendo col ‘mettere in catene’ il presente, malgrado esistano strade per lasciarselo alle spalle.
Infatti, anche se si nasce liberi, occorre tenere presente che nel corso di una vita, più o meno precocemente, non è così isolato il fatto che traumi di varia natura possano segnare in modo indelebile una persona, lasciando strascichi non facili da gestire quanto più è acerba la funzione mentale della stessa persona se toccata in primis o come testimone diretto di eventi di particolare gravità.
Posto che il trattamento elettivo è psicoanalitico, nel caso di cui intendo parlarvi, come sempre più spesso mi trovo ad agire, lo integro con l’EMDR, terapia che abbiamo importato dagli Stati Uniti da circa un decennio, ma che ha mosso i suoi primi passi negli anni ottanta, e che si occupa di sciogliere gli effetti post traumatici di eventi altamente stressanti, non solo in emergenza, ma anche a distanza di moltissimi anni.
Questa modalità terapeutica fa avanzare il trattamento desensibilizzando progressivamente ricordi traumatici, riuscendo così a disattivare conseguenze non funzionali nel quotidiano di un individuo qualora ne abbiano intaccato la serenità, la salute e i progetti di vita.
Il presupposto di cura alla base del lavoro consiste nel creare la possibilità di lasciare il passato nel passato: solo così il soggetto è libero da miti familiari scomodi, traumi transgenerazionali (ovvero di matrice relazionale e risalenti ai genitori dei propri genitori, ma anche legati all’accudimento iniziale e successivo, laddove ci siano stati segni di trascuratezza, spesso più psicologica che fisica, per cui meno facili da individuare), senza ovviamente dimenticare i cosiddetti traumi con la ‘T maiuscola’ (tutti i tipi di abusi, maltrattamenti….) non necessariamente occorsi nel nucleo domestico o in tenera età, ma anche successivamente.**
E quindi, con la previa autorizzazione di un mio paziente, che chiameremo per riservatezza Bartolomeo e semplificheremo con B., vi parlerò di un interessante ed illuminante frammento della sua vicenda attuale in chiave psicologica nonché terapeutica.
Questo non tanto per controvertere la storia zen, bensì per ribadirla nella misura in cui sentirsi liberi non è una conditio-sine-qua-non, ma, piuttosto, una meta verso cui orientarsi.
Essere imprigionati in schemi mentali creatisi per effetto di un trauma passato si lega non a una mancanza di volontà, ma assai di più agli effetti chimici di un evento scioccante sul proprio sistema nervoso, che in certe determinate condizioni di impotenza e pericolo subisce una sorta di ‘freezing’, con secrezioni ormonali che fissano indelebilmente nella memoria i fatti, lasciandone una percezione estremamente disturbante anche moltissimo tempo dopo. Ovvero, la rete neuronale non ha potuto, più che saputo, superare l’evento-shoc in autonomia, come è progettato per fare abitualmente per fatti stressanti di media gravità.
E’ dunque il caso di mettere in discussione la teoria secondo cui il tempo guarisce tutte le ferite: in modo ecologico può accadere, ma non per tutti i fatti spiacevoli e, a parità di evento, non per tutte le persone.
Se le reti neuronali non riescono a fronteggiare l’evento stressogeno è perché il cervello ha dovuto rilasciare determinate sostanze nella circostanza critica. Proprio queste sostanze sono però quelle che in seguito ne impediscono la rielaborazione, svolgendo una funzione fissativa sui circuiti del ricordo e perciò inibendo il percorso naturale, quello che ribadisco essere ecologico, altrimenti seguìto per un ricordo qualsiasi dalla mente dell’individuo.
Siamo una specie che apprende per prove ed errori, pertanto essere concepiti per non ricommetterli significa che il nostro sistema di elaborazione può fare una certa fatica a smaltire insuccessi o situazioni di pericolo o forte dispiacere, al preciso scopo di non ripetere l’esperienza negativa. È una forma, diciamo così, di sopravvivenza cui non possiamo opporre rimedio, se non agevolandola e assecondandola nell’ accelerare i processi di metabolismo di quegli stessi fatti più difficili da digerire (si veda a tal proposito il primo appuntamento con la storia zen – ‘La tazza’ ).
Ma veniamo a noi.
B. deve superare il recente licenziamento, soffre di ipertensione e teme gli scoppi di collera , non solo per ragioni di salute ma anche relazionali.
Infatti, attraverso il trattamento, è emerso che teme di non sapere gestire nella giusta misura le proprie reazioni, e, per evitare di danneggiare il prossimo perdendo il controllo, tende a subire ogni genere di ingiustizie, salvo poi pentirsi in un secondo tempo di non aver obiettato nulla, sovvenendogli miriadi di ragionamenti e riflessioni, tra l’altro spesso incontrovertibili.
Sottoponedolo a pochi set di stimolazioni oculari e feedback verbali sul momento scatenante il disagio, ovvero il giorno di convocazione per interrompere il contratto, il nostro lavoro lo conduce a un lontanissimo ricordo di quando era bambino, dove subisce mortificazioni pubbliche e poi private da parte della madre per aver reagito ai giardini in un conflitto causato da un altro bambino, appena più piccolo di lui e che lo aveva provocato distruggendo un complesso di torri di sabbia costruite per un castello, attività da lui molto amata.
Il ricordo sfocia nell’ingiustizia patita non tanto dal bambino quanto dalla madre (che lo colpisce con la paletta ‘per insegnarli a non usare la paletta per colpire i bambini’) e nell’immagine dal balcone del bimbo impunito, che indisturbato e trionfante continua i suoi giochi nel giardino sottostante, mentre lui resta – dopo essere stato picchiato – a casa in castigo.
Ricostruendo ulteriormente la traccia mnestica emerge il senso di inutilità, di rassegnazione, di profonda incomprensione affettiva, aggravata dalla maglietta insanguinata per un feroce morso inflittogli sul petto dall’altro bambino che non aveva in alcun modo impietosito la reazione materna nei suoi confronti, ma acuito un senso di vulnerabilità per la mancata protezione / difesa della donna verso di lui , allora bambino.
L’interdizione a reagire in modo eccessivo si traduce nei successivi 45 anni in un non-reagire quasi mai, di fatto, nella paura di non sapersi modulare…di esagerare.
Alle scuole medie, al liceo e durante il servizio militare si conferma in lui la teoria che se reagisce fa danni (un morso a un amico che lo esasperava a 13-14 anni e che s’infetterà , un pugno al liceo che tramortisce un altro scocciatore e collutazioni al servizio di leva, dove ottiene rispetto spaventando con la forza un altro molestatore ma poi sentendosi avvilito dai sensi di colpa) e dunque torna a vivere silenziando i suoi moti d’animo, di ribellione e di protesta fino a un aggravamento di salute di natura ipertensiva.
Con l’EMDR individuiamo prima il suo timore della propria aggressività: la percepirà come una grossa sfera metallica disseminata da punte pericolose ‘come denti aguzzi’ .
Con i set di stimolazione oculare verranno ‘smussate le punte’ e trasformata la boccia in un boccino, fino a essere una bilia d’acciaio, ma per lo meno maneggiabile, gestibile.
Poi, tornando all’immagine del licenziamento, ritroviamo un blocco: la paura di essere mortificato come in passato e che lui percepisce con un intenso senso di nausea.
Nella visualizzazione in cui lo guido avverte il blocco come una palla vischiosa di un grigio molto scuro, che mi riferisce essere qualcosa che gli dà un senso di nausea, come se avesse fatto indigestione.
Procedo a trattare B. con set di EMDR e brevi feedback verbali.
La palla si riassorbe di set in set, fino a divenire piccola, inoffensiva.
B. mi parla inoltre del forte e recente rifiuto interno da lui avvertito ogni volta che deve intraprendere una ricerca di lavoro quando questa coinvolge il dover entrare in relazione dialogica con qualcuno che potrebbe offrirglielo.
Dunque persino cercare lavoro gli era divenuta un’attività insostenibile giacché in agguato, quel blocco, il timore di essere mortificato e l’idea che non ne valesse la pena, viste le tante ingiustizie o preferenze per gente meno preparata, meno meritevole di lui (il bambino impunito che ha la meglio e si gode il gioco)…
Lavorando con l’EMDR nuovamente, avendo risvegliato in lui la resilienza, ci concentriamo quindi sulle sue risorse, sul riconoscimento del suo valore, fortificando con set oculari questi aspetti positivi.
In pochi incontri B. può tornare a pensare senza remore ulteriori alla ricerca di un nuovo lavoro, scompaiono i sintomi angosciosi, la nausea e il rifiuto a mettersi in gioco.
Abbiamo lasciato un pezzetto del suo passato nel passato.
Ora B. può tornare nel suo ‘qui ed ora’.
Ora B. avverte un senso di leggerezza, di fiducia, di energia ritrovata (dovrà sgranchirsi le gambe e passeggiare sul terrazzo dello studio…) e si sente liberato.
Questo racconto zen certamente è un invito a liberarci da ogni condizionamento.
La mia risposta sul tema, ancora in corso d’opera, forse non sarà esaustiva ma volta a mostrare di quali percorsi avvalersi per incamminarci verso certa libertà.
* Sitografia : http://www.lameditazionecomevia.it/
** Qui ci si addentra, per esempio, nel fatto che se infanzia e adolescenza vanno tutelate senza esclusione di colpi, certamente esistono fasce d’età in cui il sistema nervoso autonomo è più vulnerabile.
Ad esempio: tra i 4 e i 5 anni, le femminucce all’abuso fisico-sessuale, i maschietti a quello psicologico-verbale.
E ancora, soprattutto in fase di ‘pruning’ (11-14 anni), sia maschi sia femmine sono più fragili a eventi stressanti…
PAROLE CHIAVE : passato e presente, qui ed ora, funzione mentale, trauma, EMDR, ecologia della mente, memoria, pericolo, abuso, maltrattamento, sopravvivenza, infanzia, adolescenza, pruning, cervello, ormoni, freezing, trauma transgenerazionale, shoc, evento stressante, sintomi angosciosi, nausea, mortificazione, impotenza, blocco, aggressività, ingiustizia,resilienza, risorse, energia, senso di liberazione, fiducia, leggerezza.