1° appuntamento con l'angolo ZEN
Inizia la RUBRICA delle 101 STORIE ZEN a confronto con il pensiero psicoanalitico
Oggi vi propongo la celeberrima Tazza di tè con una mia riflessione.
UNA TAZZA DI TÈ
Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «E’ ricolma. Non ce n’entra più!».
«Come questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?».
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Questa è una delle storie zen che più spesso mi è capitato di raccontare in seduta.
Il paziente che arriva al suo primo colloquio ed anche ai successivi, in genere porge di sé e della sua vicenda umana un racconto filtrato dalle sue opinioni e congetture, di cui è interamente imbevuto.
Per la maggior parte delle persone è difficile abbandonare le proprie credenze, i retaggi, le idee costruite circa la loro identità e magari distorte nel tempo dentro a relazioni non sempre sane
Ma chi è la tazza e chi la teiera che versa il tè ? E cosa il tè…?
Penso che il trattamento psicoanalitico si distingua dagli approcci di cura presenti sul mercato perché non tenta di suggerire o indicare dall’esterno strategie o comportamenti più efficaci per il soggetto.
Non tenta di rovesciare nel cliente il proprio “sapere”.
Non ha la presunzione di fare tabula rasa e ‘inoculare’ frettolosamente una serie di precetti e modalità per trasformare forzosamente un individuo.
Né il terapeuta si eleva ad esperto e guru o, come ormai è in voga , a coach.
La tazza vuota è la mente del terapeuta psicoanalitico e il tè sono i racconti più o meno dolorosi, del paziente-teiera, i suoi pensieri-impensabili in cerca di un pensatore ( il terapeuta dalla mente-tazza vuota) che li contenga inizialmente perché la “teiera” non è più o non è ancora in grado di gestirli, o meglio, di ‘contenerli’.
Prima di chiedere ai pazienti di fare posto dentro di sé per i “buoni consigli” è auspicabile, anzi, necessario, essere terapeuta concavo per accogliere nella propria cavità il mondo delle persone che in lui depongono con coraggio – spesso dopo non poche delusioni, ferite ed abbandoni – la propria storia con in cuore una sottile ma lucente speranza che non tutto, forse, è perduto.
Ecco che il tè-racconto stilla, goccia a goccia, oppure in un gesto impetuoso rotola fuori dalla teiera (tetzubin) fino a rovesciarsi del tutto, come dicevamo, nella mente-tazza del terapeuta.
Per rispecchiamento, in modo progressivo, anche nel paziente accolto con tale apertura e disponibilità inizierà a ricrearsi, come un circolo virtuoso, la stessa modalità vissuta in seduta.
Se inizialmente non era in grado di liberarsi di schemi mentali e di comportamentI auto-etero-lesivi, né di ‘assimilare’ pensieri ‘indigesti’, in seguito, le esperienze di ascolto, di silenzio non giudicante, di partecipazione e contenimento sperimentati nel contatto terapeutico, favoriscono il rinsaldarsi o lo sviluppo ex-novo di un analogo apparato di pensiero, alla stregua di un apparato digerente, solo che di contenuti mentali anziché di alimenti.
Questa visione dei pensieri assimilabili come cibi (Wilfred Bion) o liquidi (storia zen) affonda le sue radici nel presupposto secondo cui, per elaborare i prodotti mentali, anche l’apparato mentale preposto a tale compito funzioni in modo analogo ad un sistema digerente sufficientemente maturo.
D’altro canto si deve partire da un vuoto, come conditio-sine-qua-non, per accogliere tali cibi-liquidi/pensieri di un altro essere ed avviare l’elaborazione-digestione di quei contenuti rimasti in lui bloccati o irrisolti, cioè indugesti, fino a promuiverne il progresso, la guarigione ed il benessere .
Avanzamento ed metabolizzazione interrottisi nel passato (più o meno recente) o addurittura mai avvenuti per lacune relazionali dovute alle figure di accudimento iniziali.
Dunque il trattamento analitico si dispiega proprio a partire da una presenza recettiva e silenziosa, quasi materna, da uno spazio cavo come lo sarebbe il ventre femminile prima di ospitare un bambino per tutto l’arco di gestazione. Solo in questo modo il processo metabolico-digestivo dei pensieri impensabili può prendere le sue mosse, ovvero, da un terapeuta disposto a fungere da io – ausiliario del paziente, nell’attesa che transiti in lui per innata imitazione ( neuroni a specchio, si veda Daniel Stern) questa funzione di assimilazione/ assorbimento delle idee.
Quando il paziente sperimenta la pensabilità di ciò che per lui era impensabile, il processo terapeutico può dirsi volto al termine ed il soggetto pronto ad essere tazza-vuota a sua volta.
PAROLE CHIAVE : ASCOLTO, ACCOGLIENZA, SPAZIO, TERAPEUTA, METABOLISMO, DIGESTIONE, PENSIERI IMPENSABILI-INDIGESTI, ASSIMILAZIONE, BLOCCO, IRRISOLTO, PENSABILITÀ, WILFRED BION, DANIEL STERN, NEURONI A SPECCHIO – RISPECCHIAMENTO, GUARIGIONE, MENTE VUOTA